Carige, la nazionalizzazione è dietro l’angolo

Per gli analisti l’intervento nel capitale potrebbe avvenire a cavallo delle Europee. Il governo punta ad aprire il portafogli solo dopo il voto. E il Tesoro potrebbe anche comprare crediti deteriorati

Il cambio di pelle dei 5 Stelle e della Lega sui salvataggi bancari, formalizzato con il decreto Carige, ingloba una posta in gioco altissima per il governo gialloverde: il consenso. Meglio: il rischio di un’emorragia di voti. Perché se le prime misure previste non dovessero risollevare in fretta la banca allora dal portafoglio dello Stato, cioè dei cittadini, i soldi dovranno necessariamente uscire. Un colpo pesantissimo per chi – dalle vicende di Banca Etruria a Mps – ha sempre giurato di volere rompere il legame tra lo Stato che foraggia e la banca sull’orlo del precipizio. È una corsa contro il tempo e soprattutto legata a elementi – dall’atteggiamento degli azionisti dell’istituto alla cura che imporrà la Bce – che non dipendono dall’esecutivo. Ritorna la barriera temporale delle elezioni europee di maggio. Se con la manovra era un limite da non oltrepassare, dando ai rispettivi elettorati lo scalpo della contesa con l’Europa, cioè il reddito di cittadinanza e la quota 100, con la vicenda Carige la barriera, nelle speranze dell’esecutivo, va superata. Al voto con il portafoglio chiuso. E con la speranza di arrivarci con una banca ripulita dalla spazzatura: il Tesoro, attraverso la società Sga, è pronta infatti ad acquistare i crediti deteriorati della banca.

La rottura del tabù dei soldi pubblici da utilizzare per salvare le banche innesta un meccanismo che terrà Luigi Di Maio e Matteo Salvini sulle spine fino a primavera. “Un intervento dello Stato attraverso la ricapitalizzazione è plausibile entro il primo semestre dell’anno”, spiega Francesco Pratesi, capo analista di Martingale Risk, a Huffpost. L’argine costruito dal governo con il provvedimento varato da un Consiglio dei ministri in modalità blitz notturno è quantomai precario. I tempi li dettano altri, i mercati e la Bce, ma anche l’atteggiamento e gli umori di chi la banca l’ha guidata di fatto fino a pochi giorni fa, la famiglia Malacalza in testa, che resta ancora oggi un ago della bilancia imponente per il futuro di Carige.

Le misure annunciate dalla nota di palazzo Chigi (il decreto non è stato ancora reso pubblico) individuano un percorso con tre step, tenendo l’ultimo – quello della cosiddetta ricapitalizzazione precauzionale, cioè l’ingresso dello Stato nella banca – in una prospettiva remota e lontana. Ma il rischio che il bubbone Carige possa esplodere definitivamente e in tempi brevissimi c’è. Guardando dentro alle fragilità delle norme contenute nel provvedimento c’è innanzitutto la prima misura che sarà attivata in tempi brevissimi, come hanno dichiarato i commissari della banca: la garanzia dello Stato sull’emissione di bond. Il Fondo interbancario, costituito dalle banche, a fine novembre si era impegnato a sottoscrivere obbligazioni fino a 320 milioni di euro. Solo che questo prestito – tra l’altro con un tasso di interesse elevato e crescente – andava rimborsato con un aumento di capitale. L’ha prescritto la Bce, ma per volontà degli azionisti di peso della banca non si è più fatto. Da qui è partito il commissariamento deciso da Francoforte a fine dicembre. Arriverà, quindi, lo Stato a fare da garante: di fatto un pagatore di ultima istanza perché spetterà alle casse pubbliche pagare appunto questo bond a chi l’ha sottoscritto in caso non ci riesca la banca. Basterà per stabilizzare Carige? Marcello Messori, direttore della Luiss School of European Political Economy, è scettico: “Le garanzie sui bond – spiega – sono in continuità con le iniziative assunte dai governi Renzi e Gentiloni attraverso le Gacs (le garanzie dello Stato sui crediti in sofferenza, ndr)”. Se non si mettono in campo una ricapitalizzazione e la cessione a un’altra banca – è il ragionamento dell’economista – Carige rischia di scivolare in uno scenario disastroso, dove l’intervento dello Stato sarebbe difficile da attuare, con la sola possibilità di arrivare alla risoluzione della banca.

Confrontando i tempi degli interventi con il calendario auspicato dal governo per provare a scavallare le elezioni europee, il rischio di un cortocircuito è legato quindi alla possibilità di Carige di trovare nuovo capitale. Come? Difficile che l’atteggiamento degli azionisti di punta possa cambiare. Alla riunione del consiglio d’amministrazione del 22 dicembre, che doveva dare il via libera all’aumento di capitale da 400 milioni di euro, la famiglia Malacalza si è astenuta, risultando così determinante per il naufragio dell’operazione. Le remore, secondo quanto riferiscono fonti bancarie, sono legate soprattutto al fatto che di soldi i Malacalza dentro Carige ne hanno messi parecchi, 400 milioni in quattro anni. L’ultimo aumento di capitale, quello del dicembre 2017, dall’importo di 550 milioni, è andato in fumo. Se nemmeno la disposizione della Bce di procedere con l’aumento di capitale, pena il commissariamento, ha scalfito le intenzioni del management, è assai improbabile un cambio di atteggiamento ora che la banca ha a disposizione l’aiuto dello Stato.

Si apre, qui, anche il capitolo delle responsabilità dei Malacalza come degli altri azionisti di peso. “Hanno fatto una serie di acquisizioni folli nel territorio ligure e non solo anche per la megalomania di Malacalza nel continuare a investire senza guardare alla redditività di questi investimenti”, spiega Pratesi. Si va dall’acquisto di compagnie assicurative, dal Piemonte alla Sicilia, fino all’acquisizione della Cassa di risparmio di Carrara. “Era la moda degli anni tra il 2005 e il 2010, quelli in cui Mps acquistò Antonveneta, in cui si pensava che avere più sportelli significasse fare più soldi. Poi questo momento di follia è stato spazzato via dalle banche online e da altro, ma quelle scelte ora si pagano”, aggiunge l’economista.

Al netto di un intervento degli azionisti il tema dell’aumento di capitale resta irrisolto. Guardare ai mercati? Pratesi stronca questo possibile scenario: “Non ci sono più le condizioni per chiedere al mercato, l’aumento lo può pagare solo Malacalza. Altrimenti gli unici interventi restano quelli con la garanzia dello Stato”. All’anello debole dell’aumento di capitale in bilico si aggiunge la cura da cavallo che la Bce potrebbe prescrivere a breve, cioè tra fine gennaio e febbraio, al termine della chiusura dell’ispezione avviata in casa Carige mesi fa. Se dovesse servire nuovo capitale per rafforzare il Cet1, cioè l’indicatore che valuta la solidità patrimoniale delle banche, come si uscirà da questo labirinto? Ecco che potrebbe subentrare il terzo step individuato dal governo, cioè il soccorso pubblico attraverso la ricapitalizzazione. “Il gioco delle tre carte durerà poco: se non si troveranno altri finanziatori allora si farà prima a fare intervenire lo Stato”, avverte Pratesi. Il costo politico che pagherebbero i 5 Stelle e la Lega verrebbe alla luce. E non è affatto detto che sarà facile aprire il portafoglio dei cittadini. Richiede autorizzazioni, in primis dall’Europa, riaprendo il problema del confine labile tra intervento legittimo e aiuti di Stato. Bisognerebbe individuare un cosiddetto interesse pubblico tale da giustificare l’ingresso dello Stato. Spiega Messori: “Se Carige dovesse arrivare in situazioni complicate sarebbe molto difficile ricorrere alla ricapitalizzazione precauzionale come avvenuto con Mps, vicenda che aveva un interesse pubblico. È vero che Carige è il decimo gruppo bancario italiano, ma non ha un’attività così ramificato da mettere il settore bancario italiano in situazione di instabilità”. In altre parole le condizioni per una ricapitalizzazione precauzionale potrebbero non esserci o essere comunque legate a meccanismi complessi. Per Messori la via d’uscita inevitabile sarebbe a quel punto la risoluzione. Per Pratesi, invece, questo scenario può realizzarsi, ma si aprirebbe poi il grande vaso di Pandora sul futuro della banca. Si darà vita a una good bank separata da una bad bank? Ci sono banche più grandi interessate a comprare Carige considerando che le nozze con Mps, sotto sorveglianza da parte della Bce, sono uno scenario considerato irrealistico dagli analisti?

Quesiti aperti. Il tempo, però, è più che ristretto. Qualche mese, maggio però si avvicina. Per ora, insiste Pratesi, si naviga a vista: “Oggi la si fa apparire come una soluzione, ma la banca non è risanata. Al di là di aver trovato dei soldi per tirare avanti qualche mese nell’operatività ordinaria, come si è fatto con Alitalia, ha avuto comunque una perdita di depositi mostruosa”. Il governo gialloverde ci ha messo una pezza. Quanto più a lungo si riuscirà a tamponare l’emergenza più ritardato sarà il contraccolpo. L’importante è scavallare il voto delle europee. Impresa, oggi, più che mai ardua.